
A lato potete ammirare la mia prossima lettura! ^_-
Era da tempo che volevo leggere il libro in originale, ed ora l'ho trovato.
Vi aspetto tutti nel magico mondo di OZ!!!
Beh, pur essendo un escursus inusuale per li Blog, direi che le origini del nome, permettano una piccola incursione nel mondo della filosofia. Sto leggendo Seneca quest'estate. Lettura piacevolissima visto il modo di scrivere le sue epistulae, brevi perle di riflessione antica, ma con mia sorpresa, decisamente attuale.
Tratto dalle lettere morali a Lucilio, Libro VII, 63:
"1 Mi dispiace molto per la morte del tuo amico Flacco, ma non vorrei che tu ne soffrissi più del giusto. Non oso pretendere che tu non ti addolori, anche se so che sarebbe meglio. Ma una fermezza del genere può averla solo chi è ormai molto al di sopra della fortuna. La morte pungerà la sua anima, ma la pungerà solamente. Se scoppiamo in lacrime, è perdonabile, purché le lacrime non scorrano a fiotti, e siamo noi stessi a reprimerle. Morto un amico, gli occhi non devono gonfiarsi di pianto, ma neanche esserne privi; bisogna versare qualche lacrima, non singhiozzare disperatamente. 2 Credi che ti imponga una dura legge? Eppure il più grande poeta greco concede il diritto di piangere, ma per un solo giorno, e racconta che anche Niobe si preoccupò del cibo. Domandi da dove nascano i lamenti e i pianti sfrenati? Attraverso le lacrime vogliamo dimostrare il nostro rimpianto e non ci conformiamo al dolore, lo ostentiamo; nessuno è triste per se stesso; che misera stupidità! c'è un'ostentazione anche del dolore. 3 "Come?" chiedi. "Dovrò dimenticarmi di un amico?" È breve il ricordo che gli prometti se dura in te quanto il dolore; alla prima occasione ti si spianerà la fronte al riso. E non rimando a un tempo più lontano, quando si mitiga ogni pena e si attenuano anche i lutti più lancinanti. Appena avrai smesso di spiarti, quest'ombra di tristezza svanirà. Ora sei proprio tu a custodire il tuo dolore; ma esso sfugge anche a chi lo custodisce: più è forte, più rapidamente finisce. 4 Rendiamoci gradevole il ricordo dei nostri morti. Nessuno ripensa volentieri a una cosa che gli procura sofferenza ed è inevitabile che il nome delle persone amate e perdute ci provochi una fitta di angoscia: ma questa fitta comporta un suo piacere. 5 Diceva spesso il nostro Attalo: "Il ricordo degli amici defunti ci è gradito come certi frutti sono gradevolmente acerbi, come nel vino troppo invecchiato non disdegnamo proprio quel suo sapore amarognolo; quando è passato un po' di tempo si spegne ogni sofferenza e subentra un piacere puro." 6 Se vogliamo credergli: "Pensare agli amici che sono in vita è come gustare focaccia e miele: il ricordo di quelli scomparsi, invece, è dolce e amaro al tempo stesso. Chi può negare che anche i cibi acri al palato e asprigni stuzzicano l'appetito?" 7 Non sono d'accordo: per me il pensiero degli amici morti è dolce e gradevole; li avevo e pensavo che li avrei perduti, li ho perduti e penso di averli ancòra.
Comportati, dunque, mio caro, in modo adatto al tuo equilibrio, non interpretare in maniera distorta un beneficio della fortuna: ti ha tolto, ma ti ha dato. 8 Godiamo, perciò avidamente della presenza degli amici, perché non sappiamo per quanto tempo ci possa toccare. Basta riflettere a quante volte li abbiamo lasciati per qualche lungo viaggio o come siamo stati tanto senza vederli pur abitando nello stesso luogo; è facile rendersi conto che abbiamo perduto più tempo quando erano vivi. 9 Come si fa a tollerare che uomini tanto trascurati con gli amici piangano poi disperatamente e non amino nessuno, se non dopo averlo perduto? Temono che si dubiti del loro amore e allora si abbandonano alla disperazione, cercano tardive testimonianze del loro affetto. 10 Se abbiamo altri amici e non possono esserci di conforto per la perdita di uno solo, ci comportiamo male con loro e li stimiamo poco; se non ne abbiamo altri, il male che ci siamo inflitti da noi stessi è superiore a quello che ci viene dalla sorte: essa ci ha tolto un solo amico, noi tutti quelli che non ci siamo fatti. 11 E poi chi non sa amare più di uno, non ama eccessivamente neppure quel solo. Se un tale, rimasto a sèguito di un furto sprovvisto dell'unica veste che possedeva, preferisce piangere nudo invece che cercare un modo per scampare al freddo e trovare qualcosa con cui coprirsi le spalle, non ti sembrerebbe completamente pazzo? Hai seppellito una persona che amavi? Cercane un'altra da amare. Invece di piangere, è meglio farsi un nuovo amico.
12 Quello che sto per aggiungere è trito e ritrito, lo so; ma non voglio tralasciarlo solo perché lo hanno già detto tutti: "Col passare del tempo sente esaurirsi il proprio dolore anche chi non vi ha posto fine volontariamente." Ma è proprio una vergogna per un individuo assennato che il rimedio al dolore sia la stanchezza di soffrire: è meglio che sia tu a lasciare il dolore, non il dolore te; rinuncia subito a un atteggiamento che, anche volendo, non sarai in grado di sostenere a lungo. 13 I nostri padri stabilirono un anno di lutto per le donne, ma come limite massimo, non minimo, al pianto; per gli uomini, invece, la legge non fissa nessun periodo, perché non sarebbe dignitoso. Puoi menzionarmi una sola di quelle donnette che, tirate via a forza dal rogo, allontanate a stento dal cadavere del marito, abbia pianto per tutto un mese? Niente viene più rapidamente a noia del dolore e, se è recente, trova un consolatore e attira qualcuno a sé, ma se è di vecchia data, è deriso, e a ragione: o è simulato o è stupido.
14 A scriverti queste cose sono proprio io che ho pianto il mio carissimo amico Anneo Sereno senza nessun ritegno e così, mio malgrado, sono da mettere tra gli esempi di uomini sopraffatti dal dolore. Oggi, però condanno il mio comportamento e capisco: non aver mai considerato la possibilità che lui morisse prima di me è stato il motivo fondamentale di quel mio pianto eccessivo. Avevo davanti agli occhi solo questo, che lui era più giovane, molto più giovane di me; come se il destino rispettasse l'ordine di anzianità! 15 Riflettiamo, perciò sempre che tanto noi, quanto tutti i nostri cari, siamo mortali. Allora avrei dovuto dire: "Il mio Sereno è più giovane di me: che importa? Dovrebbe morire dopo di me, ma può anche morire prima." Non l'ho fatto e la sventura si è abbattuta all'improvviso su di me senza che me lo aspettassi. Ora penso che tutto è mortale e che, come tale, non obbedisce a una legge precisa: potrebbe accadere oggi quello che può capitare un giorno qualsiasi. 16 Riflettiamo su questo, carissimo Lucilio: toccherà presto a noi di arrivare là dove lui è già arrivato e noi ce ne affliggiamo; e forse, se i sapienti dicono la verità e c'è un luogo che ci accoglie tutti, l'amico, per noi scomparso, ci ha solo preceduti. Stammi bene."
Questa è veramente una perla del buon Seneca, anche se il post è stato creato a settembre, ho voluto inserirlo quando effettivamente ho letto questo breve passo.
Tratto da Seneca: Lettere morali a Lucilio, Libro I, 9
"1 Tu vuoi sapere se Epicuro ha ragione a criticare in una sua lettera quanti dicono che il saggio basta a se stesso e che perciò non ha bisogno di amici. È un rimprovero che Epicuro rivolge a Stilbone e a chi è convinto che il sommo bene sia un animo che non patisce. 2 È inevitabile cadere nell'equivoco se si vuole sbrigativamente tradurre $PðÜèåéá$ con una sola parola e precisamente: impatientia. Può infatti, intendersi il contrario di quello che vogliamo sottolineare. Per noi si tratta dell'uomo che rifiuta la sensazione di qualsiasi male: c'è il rischio di interpretarlo, invece, come uno che non può sopportare nessun male. Vedi, dunque, se non è preferibile parlare o di un animo invulnerabile o di un animo al di là di ogni sofferenza. 3 Questa è la differenza tra noi e loro: il nostro saggio vince ogni avversità, ma l'avverte; il loro neppure l'avverte. In comune abbiamo l'opinione che il saggio è autosufficiente; e tuttavia, egli vuole avere un amico, un vicino di casa, un compagno di vita. 4 E guarda quanto è autosufficiente: certe volte di sé gli basta una sola parte. Se una malattia o un nemico lo hanno privato di una mano, se per sventura ha perso uno o tutt'e due gli occhi, anche così ridotto, sarà soddisfatto, e il corpo sconciato e mutilato gli andrà bene non meno di quando era integro. Ma se non rimpiange ciò che gli è venuto a mancare, questo non significa che preferisce la menomazione. 5 Il saggio è autosufficiente non nel senso che vuole essere senza amici, ma che può stare senza amici; e questo "può" significa che, se perde un amico, sopporta con animo sereno. Ma non sarà mai senza amici: può crearsene altri in breve tempo. Come Fidia, persa una statua, ne avrebbe fatta subito un'altra, così questo artefice di amicizie, perduto un amico, lo sostituirà con un altro. 6 Mi chiedi come si possa stringere presto un'amicizia? Te lo dirò se stabiliamo che io ti paghi subito il mio debito e per questa lettera facciamo pari. Dice Ecatone: "Ti indicherò un filtro amoroso, senza pozioni, senza erbe, senza formule magiche: se vuoi essere amato, ama." Non solo dalle amicizie sicure e di vecchia data si ricava grande piacere, ma anche dal cominciarne e dal procurarsene di nuove. 7 Tra chi ha un amico e chi lo cerca c'è differenza, come tra il contadino che miete e quello che semina. Il filosofo Attalo era solito dire che farsi un amico dà più gioia che averlo, "come al pittore procura più gioia l'atto di dipingere che l'opera finita." L'attendere con zelo a un lavoro dà di per sé un grande piacere: non ne prova, invece, uno uguale chi, finita un'opera, toglie mano. Gode ormai del frutto della sua arte: dipingendo, invece, godeva dell'arte stessa. I figli adolescenti dànno più frutti, ma da piccoli ci dànno una felicità più dolce.8 Ritorniamo ora al nostro tema. Il saggio, anche se è autosufficiente, vuole, però avere un amico, se non altro per esercitare l'amicizia, e perché una virtù così nobile non languisca; non lo fa per il motivo dichiarato da Epicuro nella medesima lettera, e cioè "per avere chi lo assista se ammalato, chi lo soccorra in carcere o in miseria", ma per avere qualcuno da assistere lui stesso, nelle malattie, o da liberare se prigioniero dei nemici. Se uno si preoccupa solo di sé e perciò fa amicizia, sbaglia. L'amicizia finirà, come è cominciata: si è procurato un amico perché lo aiutasse nella prigionia: non appena ci sarà rumore di catene, costui sparirà. 9 Sono le amicizie cosiddette opportunistiche: un'amicizia fatta per interesse sarà gradita finché sarà utile. Così se uno ha successo, lo circonda una folla di amici, mentre rimane solo se cade in disgrazia: gli amici fuggono al momento della prova; per questo ci sono tanti esempi infami di persone che abbandonano l'amico per paura, e di altre che per paura lo tradiscono. L'inizio e la fine fatalmente concordano. Chi è diventato amico per convenienza, per convenienza finirà di esserlo. Se nell'amicizia si ricerca un utile, per ottenerlo si andrà contro l'amicizia stessa. 10 "Perché, dunque, ti fai un amico?" Per avere qualcuno per cui morire, qualcuno da seguire in esilio, da strappare alla morte anche a prezzo della mia vita: quella che tu descrivi non è amicizia, ma traffico, che mira a un profitto e guarda ai possibili vantaggi. 11 L'amore senza dubbio somiglia un po' all'amicizia; lo si potrebbe definire un'amicizia dissennata. Si ama forse per denaro? Per ambizione o per desiderio di gloria? L'amore di per sé trascura tutto il resto e accende negli animi un desiderio di bellezza e la speranza di un mutuo affetto. Ma come? Da una più onesta causa può nascere un sentimento ignobile? 12 "Ma ora non stiamo discutendo," potresti ribattere, "se l'amicizia si debba ricercare per se stessa." E, invece, è questa la prima cosa da dimostrare, poiché, in tal caso, vi si può accostare chi è autosufficiente. "E come, dunque, ci si accosta ad essa?" Come a un sentimento bellissimo, non per lucro, né per timore dell'instabilità della sorte; se uno stringe amicizia per opportunismo le toglie la sua grandezza.
13 "Il saggio è autosufficiente". I più, caro Lucilio, interpretano male questa espressione: allontanano il saggio da tutto e lo costringono dentro il suo guscio. Bisogna allora chiarire il significato e i limiti di questa frase: il saggio è autosufficiente per vivere felice, non per vivere; a questo scopo gli occorrono, infatti, molti elementi, per vivere felice solo un animo onesto, fiero e noncurante della sorte. 14 Voglio ora indicarti anche la distinzione fatta da Crisippo. Egli dice che il saggio non sente la mancanza di niente e, tuttavia, ha bisogno di molte cose: "Lo sciocco, invece, non ha bisogno di niente, perché non sa servirsi di niente, ma sente la mancanza di tutto." Il saggio ha bisogno delle mani, degli occhi e di molte altre cose indispensabili alle attività di ogni giorno, ma di nessuna sente la mancanza; sentire la mancanza di qualcosa deriva dalla necessità, mentre al saggio niente è necessario. 15 Quindi, per quanto sia autosufficiente, ha bisogno di amici e desidera averne il più possibile, ma non per vivere felice: è felice anche senza amici. Il sommo bene, cioè la felicità, non cerca al di fuori mezzi per realizzarsi; è un bene interiore e nasce tutto da se stesso; diventa schiavo della sorte se ricerca una parte di sé all'esterno. 16 "Quale sarà la vita del saggio se, gettato in carcere o relegato in terra straniera o costretto a una lunga navigazione o sbattuto su una spiaggia deserta, rimane senza amici?" Sarà simile a quella di Giove, quando alla fine del mondo, scomparsi gli dèi in un tutt'uno e cessando per qualche tempo l'ordine naturale delle cose, si riposerà chiuso in sé abbandonandosi ai suoi pensieri. Il saggio fa qualcosa di simile: si ritira in sé, sta solo con se stesso. 17 Finché gli è possibile ordinare le sue faccende a suo piacere, è autosufficiente e prende moglie; è autosufficiente e genera figli; è autosufficiente e tuttavia non potrebbe vivere se dovesse vivere senza nessuno. All'amicizia non lo porta nessun interesse personale, ma una naturale inclinazione; come in altri sentimenti, anche nell'amicizia c'è un'innata attrattiva. Come esiste l'odio per la solitudine e la ricerca di associazione, come la natura lega uomo a uomo, così anche in questo sentimento c'è uno stimolo che ci spinge a ricercare le amicizie. 18 E tuttavia, pur amando molto gli amici, che mette sul suo stesso piano, o che spesso addirittura antepone, il saggio delimiterà in sé ogni bene e ripeterà le parole di quel famoso Stilbone, lo stesso che Epicuro critica nella sua lettera. Costui, dopo la caduta della sua città, in cui aveva perso moglie e figli, uscì da solo, e tuttavia sereno, dall'incendio generale; gli fu chiesto da Demetrio, che ebbe poi il soprannome di Poliorcete per le città da lui distrutte, se avesse perso qualcosa. "Tutti i miei beni," rispose, "li ho con me." Ecco un uomo forte e valoroso! Egli vinse il nemico vincitore. 19 "Non ho perso nulla," disse: e costrinse il nemico a dubitare della propria vittoria. "Tutti i miei beni li ho con me": senso di giustizia, virtù, saggezza e soprattutto l'intelligenza di non ritenere un bene ciò che può essere tolto. Ci meravigliamo vedendo certi animali che attraversano indenni il fuoco; quanto è più ammirevole quest'uomo che uscì illeso e indenne dalle armi, le rovine, le fiamme! Vedi quanto è più facile vincere tutto un popolo che un solo uomo? Sono parole uguali a quelle del filosofo stoico: anch'egli porta i suoi beni intatti attraverso la città in fiamme: è autosufficiente e in questi confini delimita la sua felicità. 20 Non pensare che solo noi pronunciamo nobili parole; lo stesso Epicuro, censore di Stilbone, proferì una frase simile, e tu prendila per buona, anche se per oggi ho già pagato il mio debito: "Se pure è padrone del mondo intero, è un infelice l'uomo che non giudica ingentissimi i propri beni." Oppure, se in questo modo ti sembra espresso meglio (bisogna badare più al significato che alle parole): "Chi non si ritiene molto felice, anche se è padrone del mondo, è un poveretto." 21 Perché tu sappia poi che questo è un concetto comune, appunto perché dettato dalla natura, leggerai nei versi di un poeta comico:
Non è felice chi non pensa di esserlo.
Che importa qual è il tuo stato, se a te non sembra buono? 22 "E come?" ribatti "se si definirà felice uno vergognosamente ricco e quell'altro, padrone di molti schiavi, ma schiavo di più persone ancora, diventeranno felici per la loro frase?" Non importa quello che dicono, ma quel che pensano, e non quello che pensano un giorno solo, ma quello che pensano sempre. Non temere, poi, che un bene tanto grande tocchi ad un uomo indegno: solo il saggio è contento delle cose sue; gli sciocchi, invece, sono tormentati dal disgusto di se stessi. Stammi bene."